Dedicato alle madri. Sul filo del ricordo

Dedicato alle madri. Sul filo del ricordo

 Di seguito, un racconto-testimonianza autobiografico di Suor Stefania Vitali, preside delle Scuole Maestre Pie, con le quali Dedalus, da anni, collabora a progetti di prevenzione del disagio giovanile. Suor Stefania ci ha donato questo suo scritto che mostra l'importanza della risposta e parola materna di fronte all'incontro infantile con il trauma e alla profonda angoscia dell' "incomprensibile".

Chiudo le palpebre e chino il capo quasi a nascondere nel petto il mio volto,
cercando echi di altri tempi e certezze che non si consumano.
La notizia spot, secondo lo stile televisivo, di un ennesimo caso di suicidio, fa gemere tutto il mio essere. Il solito “perché?”, smarrito e supplicante, denuncia il mistero della vita e della morte, delle relazioni e delle parole, sulle quali, talvolta, si può perfino edificare il mondo.
Vado così lontano, ad altre immagini, ad altro sentire, ad altro travagliato giorno della mia fanciullezza.
La mattina, al mio incerto sguardo ancora prigioniero del sonno, si annuncia come tante altre in quel rilucente calore di luglio, che dissolve i confini di ogni cosa e tutto accomuna nell’universalità dell’essere: il verde degli alberi, così uguale e pur così diverso, il giallo delle stoppie, troppo abbandonate all’abbraccio del sole, il terso cielo che, per qualche ora ancora, può giocare con i tanti colori della terra nuda e scabra o qua e là prepotente di rigoglio: terra di contrasti, terra da capire solo grazie all’amore!
Il potente profumo dei frutti maturi, che avvolge il tutto, richiama i miei sensi e mi sollecita a chiamare per nome le piante; quell’aroma, dolce e forte, dissolto nell’aria fa nascere in me la voglia di uscire da casa e correre, come al solito, per i campi, per godere, per possedere senza consumare, lasciando ogni cosa al suo posto, rispettando ogni appartenenza.

Non voglio perdere nulla di quanto la natura, che mi attornia, mi offre; vibra in me la gratitudine per poter vivere e sognare per più di tre mesi lontana dalla città, che a motivo della scuola vi trattiene tutta la famiglia. La semplice mia casetta in campagna, non lontana dal bosco, mi appare un dono del cielo pur nel perdente paragone con le ville circostanti.
D’altra parte i miei sei anni superano volentieri i dettami del padre, che mi indica ripetutamente, ma inutilmente, i confini dell’avere: “…è nostro, … non è nostro”.
Lo sguardo assettato di bellezza e la gioia che ne nasce non deturpano e non rubano, per cui mi sembra incomprensibile e molto strano non dover usufruire della mia agilità per scavalcare siepi, introdurmi in una fessura, andare oltre, sempre più oltre, che il sentiero continui od anche no, benché a destra e a manca i segni della finita proprietà sono evidenti. Certo le ragioni di mio padre coesistono con le ragioni del mio cuore, ma queste, tanto spesso, hanno la meglio.

Quella mattina, la colazione mi vede frettolosa e distratta. Nel cuore mi canta già la musica dell’acqua, che pacatamente raggiunge la grande piscina prospiciente la sontuosa villa dell’avvocato catanese, nostro confinante. Gli occhi miei inseguono già i sognati pesciolini rossi della vaschetta accanto, al cui rubinetto si attinge acqua potabile; la mente tende già alla massima concentrazione nel tentativo di superare, con lo scatto improvviso della mia mano, il guizzare dei rossi pesci, che non cedono mai al desiderio di una bambina di afferrarli, solo per la gioia di ridonare ad essi, immediatamente, la libertà …!

Abbandono la tavola, sguscio fuori dalla porta e, accortamente già lontana, grido a mia madre la volontà di giocare in giardino.
Abbacinata dal sole già alto, con l’assordante frinire delle cicale, sovrastato a tratti dall’abbaiare dei cani, prendo la rincorsa per velocemente giungere sul limitare della grande piscina, per poi aggrapparmi, come di consueto, al muretto della vasca dei pesciolini, lieta del buffo ritornello del custode della villa del catanese: “ che si fa questa mattina/ da una bimba birichina/ sempre in gara ai pesciolini? …”
Sfreccio nel viale fiancheggiato da secolari cipressi; di colpo mi fermo quasi ammaliata dal contrasto luce ed ombra e, lasciando ogni altro pensiero, inizio a saltellare dalla luce all’ombra degli alberi e viceversa. Mi sembra un passaggio di stato, un entrare ed uscire da misteriosi regni, configuranti il bene ed il male. L’odore della resina prevale. La “resina”: mi sembra una parola assoluta, mai udita ancora da alcuno; mi fermo a guardare il paesaggio, mi sento trapassata dal suo fascino, mentre mi dico: “… chissà perché papà chiama confini di proprietà quel bordo di terra incolto, sormontato da una fila sonnolenta di alberi obbedienti e maestosi?! E una siepe dal verde cosi tenero e cangiante, ti sembra che sia cresciuta per impedire a qualcuno di passare liberamente da una parte all’altra?“

Riprendo la corsa, mentre il mio cuore, incurante di ogni dire, batte più forte. Ecco un possente cancello in ferro battuto, aperto tanto quanto gli permetteva la catena non stretta alle due parti, che si concedono a fatica perfino all’esile mio corpo. Giocherellando, passo e ripasso più volte da una parte e l’altra del cancello, mentre le mani sfiorano il ferro che si esprime in disegni fantastici, tanto che ingiusta mi appare la durezza che al ferro si attribuisce.
Mi ritornano alla mente le più volte ripetute parole di mio padre nel tentativo di farmi distinguere, finalmente, “la nostra proprietà da quella degli altri”. In quel divertito gioco di dentro e fuori “la nostra proprietà”, il cui limite è indicato dai sognanti arabeschi del cancello, mi sento padrona di una libertà infinita, datami in regalo, perché mi appare come intrinseca alle cose.

Corro ancora verso la meta prescelta, mentre tendo l’orecchio verso i suoni della vallata: tutto superbamente bello e affascinante; esulto per quello che mi vibra in cuore; manca però una voce, quella voce scherzosa di Alfredo, che vedendomi, benché ancora lontana, intonava uno dei suoi burleschi ritornelli.
Sarà accanto alla piscina, mi dico, impegnato nella cura delle sue aiuole, perché … “ sulla tavola dei signori, mai devono mancare i fiori … Tu non lo sai bimba fortunata!”
Avanzo piano, evitando il crepitio delle foglie secche, nel tentativo di trovare uno scherzo da giocare a quell’Alfredo che, stranamente, ora non mi dà voce. Lascio il viale e tento una diagonale, celandomi alla vista facile dalla piscina con la complicità dei tanti alberi.
Giungo così furtivamente sul muricciolo alto della piscina e … la vista mi gela il sangue, sono incapace di ogni movimento, nel silenzio della natura circostante solo il martellare del mio cuore bussa spasmodicamente e chiede aiuto …, invano.
Quel cielo così caldo, così avvolgente, così amico, ora, immobile, tace. Terribile!
Perché?!

L’acqua della piscina, spaventosamente tersa, lascia intravedere Alfredo: il volto è brutalmente obbligato da un sasso, pendente dal collo, a strisciare sul fondo della piscina, mentre tutto il corpo tende, spasmodicamente, verso la parte alta dell’acqua a cercare quasi una nuova liberazione; calzoni e camicia sono indifferenti al tremulo rigonfiamento causato d’acqua; qualche rana cerca di frugare nella povertà delle tasche; gli occhi, spalancati in un estremo sforzo, sono come divisi tra ciò che hanno lasciato e quello che sono costretti a vedere …; il tutto circostante è immerso in un silenzio sospeso e angosciante, mentre sferza l’aria una domanda non detta: “Perché?”

Il mio sguardo è attirato da un colore grigio scuro sul bordo della vasca dei pesciolini: quasi un cuscino adagiato sulla pietra della mia postazione nella solita gara di velocità; riconosco in esso l’inseparabile mantello di Alfredo. Non ho mai saputo da quale freddo egli si riparasse anche nel caldo luglio. Non trovo il coraggio di avvicinarmi al mantello; impietrita, riguardo Alfredo nel suo sgomento silenzio e mi do ad una forsennata corsa, al grido di “mamma corri, corri mamma”.
Corre la mamma e, al suo richiamo, corrono la servitù e i signori della villa.

Cosa ne consegue al di fuori della mia casa, da quel momento, non so dirlo.

Io, senza più lacrime, continuo a fissare il nuovo e strano “confine” tra la vita e la morte, che mi si era brutalmente mostrato, e proprio io, che avevo serenamente in dispregio i confini indicatimi da papà, ora intuisco che qualche “andare” è irreversibile; quella superba libertà di saltare dalla luce all’ombra e viceversa ora è solo struggente nostalgia.
Nel silenzio della mia casa e sullo sfondo del lontano chiacchiericcio della gente, mi dico: Perché Alfredo ha scelto di andare nel buio e ha voluto restarci? Perché si è fatto del male? Tanto male da restarvi immobile e senza parole!? Perché ha fatto anche piangere? Perché …
Non so arginare l’angoscia che mi opprime e, per tutto il tardo pomeriggio, trotterello dietro a mia madre, tornata ad accudire la casa e a preparare la cena per la famiglia, assillandola con un singhiozzato ritornello: “Alfredo ha avuto un bel coraggio”…
La mamma cerca di dissuadermi dal pensiero logorante, ma io, appena lei tace, riprendo il mio dire, accompagnato da un persistente brivido di paura, quasi a voler urlare la mia incapacità di varcare quel confine senza ritorno.
Mia madre comprende il pericolo che sta crescendo in me e interviene con una forte dolcezza, fino allora a me poco nota.
Mi solleva tra le braccia, adagia la mia testa sulla sua spalla, mi accarezza ripetutamente su tutto il corpo, quasi richiamando con il tatto la mia fiducia in lei, mi pone seduta sul tavolo della cucina e, standomi di fronte, con le sue mani sulle mie gambe, dà inizio ad un discorso da me inatteso.
Ecco l’incipit: “Senti, bambina mia, guardami bene negli occhi …”
La formula “guardami bene negli occhi” ha, per me, tutto il sapore dell’ ... “Amen, amen dico vobis”, colto distrattamente in chiesa, senza capirne il significato, di cui, però, percepivo la solenne gravezza”.
Mi sembra, pertanto, che un frammento di assoluto mi venga offerto nella situazione di drammaticità interiore, in cui tutto oscilla convulsamente.

La mamma prosegue, con parole semplici, in un discorso molto forte, definito poi da me “ Inno alla vita”:
“Chi si toglie la vita non è coraggioso, no! Non è coraggioso!
Coraggioso è tuo padre, che ogni giorno lavora, affronta i problemi, e, mettendo da parte stanchezza e sofferenza, a sera, gioca con voi e a voi racconta fiabe e storie vere.
Coraggiosa è la nonna, che accetta da anni la malattia e la nasconde agli occhi dei figli con un sorriso e poche parole.
Coraggiosa è la zia, che, quasi cieca, ha accolto gioiosa il nuovo figlio con cui a te piace tanto giocare.
Coraggiosa sono io, che alleggerisco spesso il lavoro di papà, assisto la nonna, accudisco quattro figli e talvolta mi capita di dover inventare cosa mettere in tavola, mentre a voi bambini racconto dove sta la felicità …
Coraggiosa sei anche tu che canti e ridi con me mentre aspettiamo il ritorno di papà e, insieme, poi riordiniamo la cucina …”

La litania del coraggio non cessa d’invadermi, né lascia spazio a repliche di tono contrario. Essa mi spinge pian piamo ad un pensare diverso, cerca di rinfrancarmi sulle positività del quotidiano, che la mamma dispiega ai miei occhi.
Eppure nel mio profondo si agita ancora l’immagine di quello sguardo forzatamente spalancato sott’acqua e inutilmente supplicante aiuto; così ad un respiro di mia madre, impercettibilmente più lungo, viene ancora a galla la mia fragilità, che si fa parola dal non diverso significato: “ … ma io, io non avrei certo il coraggio di Alfredo; io non potrei mai fare …”.

Ed ecco la replica di mia madre con qualche variante sul tema già svolto:
“ Certo, piccola mia, tu quel coraggio non l’hai e non devi averlo! Brava, non devi avere quel coraggio; tu devi avere il coraggio della tua famiglia; hai ragione, tu non puoi …, e non puoi perché tu non devi! …”
“E come farei io senza i tuoi capricci, che mi tengono viva?
Chi canterebbe con papà, a chiusura dei mille racconti, le filastrocche arcinote, che ti fanno addormentare felice?
Chi terrebbe sveglia la nonna nelle lunghe giornate in cui le zie non vengono a trovarla?
Chi, saltellando, farebbe la spola tra la nostra casa in città e quella dei vicini, che aspettano dalle tue manine il cestino preparato dalla mamma …?
I tuoi fratelli come farebbero a far risuonare la casa dei tuoi acutissimi strilli?
E al calar della sera, sotto il pergolato, chi confesserebbe alle stelle le tue mille bugie, che tengono allegro anche il cielo; chi darebbe il nome alle nuvole, che mutano forma, nel trascolorare di alcuni giorni?
Chi raccoglierebbe le voci della vallata collocandole in storie meravigliose?
E chi, prima di andare a letto, canterebbe a Gesù il coreografico grazie per l’amore che ci regala, inventando preghiere dolci e bizzarre?
E in quale volto, se non nel tuo, bambina mia, io adorerei la grazia di Dio e la grandezza dell’universo, che aspetta di essere accarezzato dalle mie mani e dalle tue mani piccole, belle e, un giorno, magari, più veloci … dei pesciolini rossi”…

Mi addormento esausta, ma con la piacevole certezza in cuore di essere utile e addirittura necessaria alla famiglia, ai poveri del vicinato, a Dio, all’universo intero.

Dormendo, non ho più coscienza della dolce cantilena snocciolata dalla mamma, eppure tutte le mie cellule respirano la sua voce rassicurante; ogni cosa ora corre sui propri binari, tutto torna a ruotare attorno al perno conosciuto da sempre: l’amore alla vita!

Il nuovo giorno mi sveglia prima del solito; il ricordo forzatamente mi trascina ancora sul muro alto della piscina; un brivido mi scuote interamente, ma nel mio animo ora ci sono mille ragioni per non lasciarmi sconvolgere: affiorano, con la stessa voce di mia madre, accompagnata di tanto in tanto dalla mia, le litanie del coraggio vero.

Mia madre presto si accosta al lettino, mi passa le sue dita tra i capelli, mi invita a colazione, ed io a lei: “ … ma Alfredo non aveva una mamma, vero?”
Risposta: “Forse!”
“Forse” odono le orecchie, ma il cuore vi legge: “certo, non aveva la mamma”; dato che, ne sono sicura, solo l’amore della madre preserva da ogni incubo distruttivo.

Nei giorni a seguire, non mancano alla mamma le occasioni, parlando con il babbo o con la nonna, di ribadire quella verità, che in dose massiccia mi aveva somministrato, facendosi guardare negli occhi per comunicarmi con autorevolezza la bella e forte energia che gli affettuosi rapporti con la famiglia, con la natura, con Dio, generano.

Gli anni velocemente si susseguono, le tempeste sferzano a intervalli irregolari la mia esistenza, a volte tanto, troppo, furiosamente.
Anche la tentazione di oltrepassare quel confine senza ritorno interroga la mia debolezza, ma non trova terreno fertile: sento, quasi visceralmente, che io non sono mia proprietà; l’appartenere alla famiglia, alla società, a Dio è un dato certo più della mia pelle; non posso e non voglio far soffrire, e in “quei legami” trovo la mia grande libertà.
Godo, tra le brucianti lacrime, di questa felice verità di “dipendenza” liberante.
Mi rimbocco le maniche, riprendo il cammino, lieta di esserci in questa dinamica e stupenda realtà, che chiama ciascuno a far nascere, continuamente, nuova e inconsueta gioia da regalare a tutti.

Quel rustico inno alla vita, quel canto povero agli affetti familiari e alla vita universa abitano le mie cellule, sono il mio sangue!

La madre, ogni madre, è creatura voluta a far scoccare sempre la scintilla della vita in una catena inarrestabile di bene nel divenire della storia.

Sr Stefania

 

Pubblicato da Dedalus Bologna il