Non sparate alle gambe dei sopravvissuti!

Non sparate alle gambe dei sopravvissuti!

Quando frequentavo i primi anni di Università lessi, su un libro di testo, una delle pratiche delle USArmy durante la guerra in Vietnam.
Non avevo allora abbastanza strumenti per capirne a fondo le implicazioni cliniche ma è qualcosa che rimase impressa nella mia mente.
La questione è piuttosto breve: quando nella foresta venivano ritrovati dei gruppi militari USA dopo un feroce attacco dei Vietcong, ai pochi sopravvissuti alla strage gli Ufficiali sparavano alle gambe.
Gli studi psicologici dell’’esercito avevano rilevato che questa pratica riduceva gli scompensi psicotici nei superstiti.

 

Al di là della pratica atroce ed efferata, cosa ci insegna psicoanaliticamente questa storia?

 

Mette in evidenza una questione clinica importantissima che ritroviamo abbondantemente in ciò che sta accadendo in questi giorni di emergenza sanitaria per il Coronavirus.
In un gruppo di militari, in un gruppo di cittadini, succede una strage.
Una tragedia, colpisce all’improvviso e, senza alcun senso logico, uccide moltissime persone ma soprattutto ne lascia altre vive.
È chiaramente un caso: alcuni muoiono trapassati dai proiettili, colpiti dalle mine antiuomo, devastati dal virus, altri no, per puro caso, si salvano.

 

Perchè sono destinato a vivere?

 

Dopo aver pianto i morti e la devastazione rimane una domanda nella testa di chi sopravvive: perché io no? Perchè sono destinato a vivere? Cos’ho io di più? La fortuna? La forza fisica? Un talento? Una missione? Uno scopo? Una redenzione?
Tutti si fanno questa domanda, nessuno escluso, poi a seconda delle personalità e delle storie di vita, ciascuno ci fa i suoi conti. Succede che, delle volte, questi conti possano trasformarsi in un senso di onnipotenza: sono vivo, proprio io, perché sono destinato ad esserlo.

Queste onnipotenze, più o meno gravemente strutturate, portano con se una conseguenza di aggressività e di intolleranza nei confronti degli altri, l’idea di base è che, essendo degli eletti, si ha più diritto di chiunque altro a stare al mondo, si è più giusti, più sani, più forti, quelli a cui è stato concesso il diritto di vivere.
L’abbiamo visto macroscopicamente a livello comunitario, quando il virus colpiva la Cina l’Europa si sentiva nettamente superiore, noi popolo occidentale democratico, con una sanità eccellente, non avremmo subito così tanto, queste sono cose che capitano nel terzo mondo.
Quando è stata colpita l’Italia il resto dell’Europa ha avuto lo stesso atteggiamento nei nostri confronti, poi così l’Inghilterra e gli USA.
Era sempre l’altro quello destinato a morire, perché più povero, meno organizzato, più incapace, più debole, più sfortunato.

Lo vediamo quotidianamente anche tra le persone all’interno di una stessa nazione, prima in una lotta regionale ora tra vicini di casa.
Sempre più spesso, tramite le storie dei nostri pazienti o anche anche attraverso l’ osservatorio dello Psicologo online, veniamo a conoscenza di disagi familiari, di liti, agiti aggressivi nelle famiglie, tra partner, dai balconi, in fila al supermercato, sui social.
Questo accade perché i sopravvissuti hanno la ferrea convinzione di avere il sapere dalla loro parte: loro sanno come si fa a stare al mondo, sono eletti, interpretano la legge, non si fidano delle notizie, insegnano ai virologi, mettono in dubbio che le rianimazioni siano piene, leggono piani economici sotterranei invisibili ai più, loro conoscono, loro sanno la verità dell’ esistenza.

I sopravvissuti non si interessano più alla sofferenza, ne hanno già vista troppa, ora la tengono lontana, sono certi che non li toccherà mai, che non è cosa che li riguarderà più.
I sopravvissuti sono terrorizzati come gli altri, sono terrorizzati più degli altri, ma il loro modo di difendersi passa da questa posizione di intoccabilità che trascina con sé una apparente mancanza di pietà, un eccesso di aggressività, causate dalla certezza di avere le risposte giuste, le risposte giuste riguardo l’esistenza, riguardo la capacità di stare al mondo.
Loro sanno chi è destinato a vivere e chi a morire, conoscono le regole del gioco della morte.
I sopravvissuti smettono di pensare alle persone che stanno male, non per mancanza di empatia, incapacità ad amare il prossimo, chiusura mentale. Non ci riescono perché le cose che fanno orrore si riescono ad avvicinare solo in due modi: negandole o credendo che non appartengano più alla nostra persona, famiglia, nazione, razza, classe sociale.

Pensiamo a un fenomeno che ci scandalizza tanto della seconda guerra mondiale: la negazione dei campi di sterminio. Per alcune persone non esistevano, erano una montatura, una propaganda.
Oggi accade lo stesso: il virus non è così letale, ci tengono in casa per questioni economiche, per mala gestione, i posti in rianimazione esistono ma li danno solo ai ricchi…
Questi solo alcuni dei discorsi in cui tutti noi siamo incappati, ascoltandoli o leggendoli.


La negazione, come l’onnipotenza sono nomi della difesa, della difesa da un orrore che non si puó guardare del tutto perché l’angoscia sarebbe devastante.
Orrore per la crudità dell’esistenza, per l’ingiustizia della vita e per la cecità della morte, che, al di là di ogni possibile regolamentazione, non preserva i valorosi, i ricchi, i forti, i buoni, i bianchi, i lombardi, gli Inglesi…

 

Cosa rende ancora più complicate le cose in questo tempo così atroce?

 

Che a differenza della guerra in Vietnam, manca un nemico, un nemico vero, strutturato, qualcuno a cui dare la colpa di questo schifo.
Nulla sta reggendo proprio perché incredibilmente questo virus è democratico, colpisce tutti: i gialli, i neri, i bianchi, i re, i primi ministri, i segretari di partito, i medici...
Non avere un nemico da incolpare fatica ancora di più a farci strutturare le difese, che, in quanto tali, per definizione, sono sempre paranoiche.
Proprio a causa di questa impossibilità nel trovare qualcuno a cui dare la colpa le aggressività sono così dilaganti. Ci si trova tutti contro tutti, il nemico può essere chiunque, non ci sono i Vietcong.
Ci sono nemici nascosti ovunque: chi non sta alle regole o chi ci sta troppo, chi ci governa e chi ci cura.

Ci ricordano però i nostri soldati americani, senza troppi giri di parole, che essere sopravvissuti è una grande fortuna, ma al contempo è anche una terribile sventura: ti possono ancora sparare, sei di nuovo in gioco, non è finita, sei nel mezzo dell’angoscia e ti tocca vivere.
Le USArmy lo fanno sparandoti alle gambe, per sottolineare che non sei onnipotente, non sei un eletto, non sei baciato dalla fortuna, hai solo tanta angoscia da affrontare e tante responsabilità ora, che sei ancora vivo.
La responsabilità è quella di seppellire i morti e di ricordarli, di non negare l’orrore e di convivere con il terrore che tutto questo possa capitare ancora anche a te, in qualunque momento.
La responsabilità di tutti noi sopravvissuti è quella di esistere nonostante questo, nonostante il dolore e l’angoscia, la paura e la fatica, perché non siamo più fortunati o migliori, siamo solo qui per caso e non ci resta altro da fare che continuare a vivere.


Arianna Marfisa Bellini
Psicologa e Psicoterapeuta

 

 

Pubblicato da Dedalus Bologna il