Lo straniero dentro di noi

Robert Capa, Sicily. July-August 1943. An American medic looking after a German prisoner.

Robert Capa, Sicily. July-August 1943.
An American medic looking after a German prisoner.

Il nemico che vediamo negli altri si incontra originariamente dentro di noi. Arno Gruen, uno degli psicologi sociali più prestigiosi della Germania, esamina la radice della violenza umana.

Klaus Barbie, il carnefice della Gestapo di Lione, che torturò fino alla morte il combattente della Resistenza francese Jean Moulin, disse in una intervista con Neal Ascherson nel 1983: “ Quando interrogai Jean Moulin, ebbi la sensazione che lui fosse me”. Vale a dire, ciò che quell’assassino fece alla sua vittima lo fece, in un certo modo, a se stesso.

Il punto di vista che voglio esporre è il seguente: l’odio verso gli altri ha sempre qualcosa a che vedere con l’odio per se stessi. Se vogliamo comprendere perché le persone torturano e umiliano le altre persone, prima dobbiamo analizzare ciò che detestiamo in noi stessi.
Quindi il nemico che pensiamo di vedere negli altri deve trovarsi originariamente dentro di noi.
Tentiamo di zittire questa parte di noi stessi annichilendo l’altro che ce la ricorda perché assomiglia proprio a noi. Solo in tal modo possiamo mantenere distante ciò che in noi stessi è diventato estraneo. Solo così possiamo vederci come persone degne. Questo processo interiore che cerco di descrivere è onnipresente e riguarda, in un modo o nell’altro, ognuno di noi.
Vorrei illustrarlo ora con un paio di esempi della mia pratica clinica.
Un paziente mi racconta un episodio della sua infanzia. Aveva cinque anni quando suo padre si permise di fare uno scherzo a due amici che erano fratelli. Il padre chiamò ognuno dei due fratelli (vivevano in case diverse) per comunicargli che l’altro fratello era stato coinvolto in un incidente. Evidentemente gli era parso divertente immaginarsi i due fratelli che correvano completamente atterriti verso le rispettive abitazioni per poi scontrarsi l’uno contro l’altro a metà strada. E questo fu esattamente quello che accadde.

Quest’uomo, che era apprezzato da tutti per essere un padre buono e affettuoso, negava le sue motivazioni sadiche. La sua dedizione e cura erano solo una maschera, con la quale occultava quello che in realtà caratterizzava la relazione con suo figlio, ossia, la mancanza di sensibilità ed empatia. Sebbene da bambino il paziente fu esposto ad esperienze dolorose e offensive, come quella precedentemente descritta, da adulto spesso si comportava esattamente come suo padre. Un giorno fu invitato a cena a casa di un uomo disabile. Quest’uomo gli raccontò un aneddoto in cui un tassista lo aveva offeso per la sua disgrazia e gli parlò del sentimento di paura e impotenza che aveva avuto (l’uomo era paraplegico). Durante la seduta di terapia il paziente raccontò, pieno di orgoglio, che aveva dimostrato al suo padrone di casa l’aggressività con la quale si sarebbe imposto lui in quella situazione. Non aveva accesso alla sua propria sensibilità né alla sua paura; al contrario, rifiutava questi sentimenti che, come suo padre, considerava una debolezza (…).

Una studentessa di un corso di psicologia clinica mi domanda durante una lezione: “Come può essere che io stessa, che lavoro con richiedenti asilo, abbia all’improvviso pensieri razzisti? L’altro ieri ho parlato con un gruppo di giovani albanesi. Alcuni hanno detto: “Voglio lavorare come apprendista”. Allora ho avuto la sensazione che fossero degli stranieri arroganti. Adesso, con la sua conferenza, all’improvviso mi è tornato in mente qualcosa di lontano e dimenticato: mi obbligavano sempre a dire vorrei al posto di voglio. Per questo ho odiato quei giovani albanesi, per qualcosa che ho imparato ad odiare in me”.

“Il soldato”, scrive Barbara Ehrenreich in Riti di Sangue (1997), “cerca il nemico e finisce per incontrare persone nelle quali si riconosce senza alcun dubbio”.
Nel suo libro El honor del guerrero (1998), Michael Ignatieff riporta una conversazione che ebbe con un guerrigliero serbo in una casa colonica nella Croazia orientale: “Mi permetto di dirle che non sono in grado di distinguere un serbo da un croato – e gli chiedo: “Perché pensi siate così diversi?” Lui si guarda intorno con sdegno e raccoglie una sigaretta dalla sua giacca militare color cachi: “Lo vedi? Queste sono sigarette serbe. Là fuori (…) fumano sigarette croate”. “Però entrambe sono sigarette, no?”. “Voi stranieri non capite nulla!” Si scrolla le spalle e ricomincia a pulire il suo mitra Zavosto. Ma, a quanto pare, la domanda lo aveva irritato. Trascorsi alcuni minuti, tira l’arma sul letto che sta tra di noi e dice: “Voglio dirti come la vedo. Quelli lì di fronte vogliono essere damerini. Si considerano europei moderni. Ma ti dico una cosa: siamo tutti merda balcanica”.
Ignatieff continua dicendo: insomma, prima mi fa intendere che croati e serbi non abbiano niente in comune. É tutto diverso, perfino le sigarette. Poi un minuto dopo dice che il problema reale dei croati è che si credono “migliori di noi”. Alla fine arriva a questa conclusione: in realtà siamo tutti uguali.
Nel suo saggio del 1918 Il tabù della verginità, Freud scriveva: “Quando ci si somiglia molto, sono proprio le piccole differenze che stanno all’origine dei sentimenti di estraneità ed ostilità tra le persone”. Perché, si domanda Ignatieff, i fratelli si odiano con più violenza degli sconosciuti? Perché gli uomini e le donne evidenziano sempre le loro differenze, nonostante il loro materiale genetico sia identico, tranne che uno o due cromosomi? La necessità di delimitarsi è talmente grande da negare ciò che innegabilmente abbiamo in comune come, ad esempio, l’abilità intellettiva e presentarlo come se si trattasse di una differenza, nonostante sia stato dimostrato da tempo il contrario.

La domanda che sta dietro a tutto questo è la seguente: come mai percepiamo le piccole differenze come se fossero una minaccia? Come si arriva al paradosso di vedere un altro essere come qualcuno di estraneo e straniero quando è uguale a noi? Quanto più vicine sono le relazioni tra gruppi umani, tanto più questi gruppi sono ostili, prevedibilmente, gli uni con gli altri. Sono i punti in comune che fanno sì che le persone lottino tra di loro, non le differenze.
Siano essi genocidi, torture o l’umiliazione quotidiana che subiscono i bambini da parte dei genitori, tutti questi esempi di violenza e odio hanno qualcosa in comune: il sentimento di repulsione per l’altro, l’ “estraneo” o lo “straniero”. Coloro che commettono atti di violenza si considerano “persone”, mentre gli altri non meritano questa qualifica. L’altro è degradato a Unmensch, al livello delle bestie. È come se, attraverso questo processo, uno si purificasse da se stesso. Denigrando e tormentando le altre persone, uno si libera dal dubbio di non essere immacolato. Il fatto di essere puro o di essere macchiato diventa una caratteristica che distingue quelle che sono persone da quelle che non lo sono. In questo modo ci si sposta dalla percezione all’astrazione. L’altro ormai non viene considerato nella sua condizione umana singolare. A questo punto non è altro che un componente di un gruppo. I suoi comportamenti, atteggiamenti e sentimenti concreti spariscono dal campo visivo e, in cambio, la sua personalità si riduce a un solo attributo: l’appartenenza al gruppo. Questa astrazione rende impossibile vedere l’altro con empatia.

Arno Gruen (1923-2015) è stato un eminente psicologo e psicoanalista svizzero-tedesco. Questo testo è parte di “El extraňo que llevamos dentro. El origen del odio y la violencia en las personas y las sociedades” che Arpa pubblica in spagnolo il 19 giugno 2019. Pubblicato su El Pais il 13 giugno 2019.

Traduzione dallo spagnolo della dott.ssa Gloria Barioni.

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