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Perchè i ragazzi ci fanno così paura?

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La solitudine degli adolescenti

Dedalus, studio di psicologi a Bologna nelle ultime settimane ha avuto modo di incontrare numerosi studenti delle scuole medie e superiori di Bologna e della Romagna. Lo ha fatto attraverso la proiezione di due film ( “The beat beneath my feet” e “Cyberbulli-pettegolezzi on line”) in cui i protagonisti erano degli adolescenti alle prese con la loro vita, le loro difficoltà, i propri dolori familiari. Film molto diversi tra loro ma avevano un punto in comune: la solitudine dell’adolescente. Sì perché troppo poco si parla di come un ragazzo, a 15 anni, può sentirsi completamente solo e senza parole per esprimere la propria sofferenza

Quali sono i motivi della solitudine?

I motivi della solitudine, possono essere i più disparati: problemi familiari, difficoltà amorose, prese in giro da parte degli altri compagni di scuola, prepotenze che i ragazzi infliggono agli altri per difendersi da un dolore che non si riesce a mettere in parola. Gli studenti hanno parlato e anche tanto, il tempo a disposizione non è stato sufficiente per ascoltarli tutti e attraverso le vite dei protagonisti dei film molti di loro hanno condiviso difficoltà, insicurezze, la profonda solitudine che provano.

La percezione dell’Altro

Quello che ha colpito maggiormente Dedalus è stato che i ragazzi non hanno mai fatto riferimento agli adulti, come se nei loro problemi, nelle loro domande, nei loro dolori, l’Altro non potesse fare nulla, non fosse in grado di ascoltarli e di aiutarli ad uscire da situazioni complicate come le prese in giro su whatsapp, in classe o i ruoli e le maschere in cui i ragazzi sono incastrati e che li fanno stare male. Negli studenti che abbiamo incontrato è emerso che loro non aspettano più la risposta dell’ Altro, come se dall’adulto non si aspettassero nulla se non di tenerlo tranquillo e di non angosciarlo. Cosa è accaduto agli adulti? Quando hanno smesso di parlare con i ragazzi? Perchè gli adolescenti sono così intimoriti dalle fragilità dell’Altro tanto da non caricarlo delle loro preoccupazioni?

Genitori e figli: il tempo dell’ascolto

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“Empatica” un braccialetto per misurare le emozioni. Tutto questo potrà garantire la felicità?

PER IL BLOGEmpatica

Nei giorni scorsi leggevo un articolo su tre ricercatori italiani che hanno inventato un braccialetto che misura il livello dello stress attraverso il battito cardiaco, la temperatura corporea, la conduttività della pelle. Il braccialetto si chiama “Empatica”, ciò che rileva nel soggetto che lo indossa lo trasmette direttamente al suo cellulare con i risultati, il livello di stress. Questo progetto come altri di cui si parla nell’articolo sopracitato hanno diversi obiettivi: prevenire le possibili malattie che derivano dallo stress, controllare e misurare l’emozioni per ripararsi dalla depressione o da altre alterazioni dell’umore. Idee molto ambiziose tuttavia mi sorgono una serie di domande: fino a che punto è lecito misurare l’emozioni? Lo stress è un indicatore di possibili future malattie ma la standardizzazione e la misurazione comporta che tutti devono o non devono essere stressati
allo stesso modo? E chi dice che questo vada bene per tutti?  Continua a leggere

Quando i pazienti salutano…

imageÈ sempre emozionante quando un paziente di Dedalus Bologna decide di concludere o sospendere il suo percorso di cura.
C’è chi se ne va perché non ha più sintomi, chi lo fa perché vuole provare a farcela da solo, chi sta ripetendo una fuoriuscita fantasmatica, chi è giunto all’ osso del suo discorso, chi ha paura di quello che sta vedendo, chi si rassegna al solito, chi se ne va per rabbia, chi conclude per amore.
Certi pazienti escono piangendo, altri con un abbraccio, alcuni sbattono la porta, alcuni ritorneranno.
Ogni volta lo psicoterapeuta si trova li, in un punto in cui qualcosa del rapporto transferale e qualcosa della sua carne si mescolano per un istante: li fa capolino l’emozione.
Così si ricambia l’ abbraccio che è quasi sempre il primo e l’unico di anni di percorso, oppure si rimanda con fermezza che non é ora di andare. Così ci si commuove guardando una persona felice che ci stringe la mano e pensando a quanta strada e a quanto dolore ha sopportato. Oppure si fa l’estremo tentativo di risvegliare il desiderio di un paziente che sta scegliendo l’ uscita dalla cura come una fuga da se stesso.
In ogni caso tutto ciò che rimane è la nostra mano sulla maniglia della porta mentre guardiamo le spalle di chi ci ha appena salutato e sta cominciando a camminare al di la di qui.