Archivio dell'autore: Gloria Barioni

L’influenza spagnola, il Covid-19 e Sigmund Freud

 

 

 

“Se affermiamo che stiamo combattendo il virus e lo sconfiggeremo  stiamo utilizzando delle metafore belliche che, in realta’, non sono applicabili al virus. Questo mostra quanto sia astratta la situazione. Non abbiamo nemmeno un linguaggio appropriato” (Annemarie Pieper, 2020).

Quale potrebbe essere un linguaggio appropriato e come potremmo trovarlo ai tempi del Coronavirus, quando siamo circondati dalla morte e dalla miseria umana durante una pandemia globale? Non stiamo forse nuovamente affrontando una “crisi dell’immaginazione” (vedi Tom Friedman, New York Times, 2001) come e’ successo l’11 settembre 2001, quando inizialmente non siamo riusciti a trovare parole adeguate per descrivere il crollo delle Torri Gemelle di New York dopo che un aereo le colpi’ in volo facendole collassare? Oggi non siamo di fronte ad un feroce terrorista, ad un atto politicamente motivato che ci lascia senza parole, piuttosto ci troviamo davanti ad un virus invisibile che ha contagiato milioni di persone e causato la morte di migliaia di loro in un modo devastante e inaspettatamente rapido in tutto il mondo.

Per trovare un linguaggio, un sistema simbolico, per afferrare il Reale linguisticamente e per integrare l’attuale catastrofe, mi sono interessata alla questione di come lo stesso Sigmund Freud, all’inizio del secolo scorso, potesse aver reagito all’allora terribile devastazione provocata dall’influenza spagnola e di come potesse averla integrata nei suoi scritti. L’unica cosa che sapevo era che Sophie Halberstadt-Freud, la preferita tra i suoi figli, la bambina benedetta, mori’ il 25 gennaio 1920 a causa di questo virus e la sua morte, assieme a quella del minore dei suoi figli, Heinerle, tre anni dopo, lascio’ Freud in uno stato di tristezza e disperazione che solo dopo molto tempo egli stesso fu in grado di riconoscere. Freud annuncio’ la morte di Sophie alla propria madre Amalia il 26 gennaio 1920 con le seguenti parole:

Cara Madre,

Oggi ho per lei delle cattive notizie. Ieri mattina la nostra cara amata Sophe e’ perita a causa di una grave influenza con polmonite. Lo abbiamo appreso verso mezzogiorno da una conversazione telefonica con Minna a Reichenhall, Oli ed Ernst sono partiti da Berlino per stare vicino a Max. Robert e Mathilde partiranno il ventinove per cercare di assistere il pover’uomo distrutto. Martha e’ troppo sconvolta; non e’ possible che intraprenda il viaggio e, in ogni caso, non avrebbe fatto in tempo a vedere Sophie in vita. E’ il primo dei nostril figli a cui sopravviviamo. Cosa ne sara’ di Max e cosa succedera’ ai bambini, ancora non lo sappiamo. Mi auguro che riesca a restare calma, Madre. Dopotutto la tragedia va accettata. Ma rimpiangere questa splendida, vitale ragazza, cosi’ felice con suo marito ed i suoi figli, e’ certamente permissibile.

La saluto con affetto,

Vostro Sigm

(Ernst Freud, 1960, pp. 326, 327)

Il giorno dopo Freud scrisse ad Oskar Pfister, suo amico e reverendo svizzero:

Caro Dottore,

(…) Quel pomeriggio abbiamo ricevuto la notizia che la nostra dolce Sophie ad Amburgo era stata portata via dalla polmonite influenzale, portata via nel bel mezzo della sua salute rigogliosa, della sua vita piena ed attiva, come madre competente e moglie amorevole, tutto nel giro di quattro o cinque giorni, come se non fosse mai esistita. Nonostante ci fossimo preoccupati per lei per un paio di giorni, eravamo ciononostante speranzosi; e’ cosi’ difficile giudicare a distanza. E questa distanza deve restare una distanza, non siamo riusciti a viaggiare immediatamente, come avevamo pensato, dopo le prime notizie allarmanti; non c’erano treni, nemmeno per un’emergenza. L’aperta brutalita’ dei nostri tempi ha un grande peso su di noi. Domani verra’ cremata, la nostra gioia! Nostra figlia Mathilde e suo marito partiranno per Amburgo dopodomani, grazie ad un insperato collegamento di un treno Entente; almeno nostro genero non era solo; due dei nostri figli sono gia’ a Berlino con lui e il nostro amico Eitington e’ andato con loro. Sophie lascia due bambini, uno di sei anni e l’altro di tredici mesi, ed un marito inconsolabile che paghera’ cara la felicita’ di questi sette anni. Felicita’ che esisteva esclusivamente nel loro nucleo; all’esterno c’era guerra, reclutamento, ferite, lo svuotamento delle risorse, ma loro erano rimasti coraggiosi e contenti. Lavoro piu’ che posso, e sono grato a questa distrazione. La perdita di un figlio sembra essere una ferita narcisistica molto seria; cio’ che viene normalmente definito come “lutto” arrivera’ in seguito.

(Ernst Freud, 1960, pp. 327, 328)

E qualche giorno piu’ tardi, il 4 febbraio 1920, Freud scrisse a Sandor Ferenczi:

“Caro amico,

Non ti preoccupare per me, ti prego. A parte sentirmi piuttosto stanco sono sempre lo stesso. La morte, anche se dolorosa, non ha un impatto sul mio atteggiamento verso la vita. Da anni mi preparavo alla perdita di uno dei miei figli e invece e’ toccato ad una figlia; la mia assenza di fede non mi permette di accusare nessuno e non ho un luogo in cui porgere il mio lamento (…) Nel mio profondo sento una grave ferita narcisistica. Mia moglie ed Annette sono state colpite in modo molto piu’ umano.”

(Ernst Freud, 1960, p. 328)

Il lutto venne in seguito, ma cio’ che non venne mai fu di riguardare gli effetti dell’influenza Spagnola sulla sua opera e le tracce che la pandemia lascio’ sugli altri membri della famiglia. Grazie alla corrispondenza con Karl Abraham, comunque, possiamo apprendere che la moglie di Freud, Martha, aveva gia’ contratto la “polmonite influenzale” nel Maggio 1919. “Mia moglie adesso ha una polmonite influenzale ma sembra procedere bene, ci viene raccomandato di non preoccuparci” (Freud/ Abraham, 2009, p. 620). Tuttavia, da una nota di Ernst Falzeder e Ludger Hermanns, apprendiamo che “Martha Freud si sarebbe ripresa solo dopo molti mesi. Dal 1918 al 1919 la cosiddetta influenza Spagnola impazzava, uccidendo piu’ persone della prima guerra mondiale, incluso la figlia di Freud Sophie, mort ail 25 gennaio 1920” (Freud/ Abraham, 2009, p. 621). Dopo essersi ripresa, Martha decise di recarsi in un sanatorio a Parsch, vicino a Salisburgo, e Freud e sua cognata Minna  si recarono in una struttura piu’ costosa a Bad Gastein, decisione che lo porto’ a scrivere le seguenti parola e Karl Abraham il 6 luglio 1919:

“Mia moglie, posso dirlo, e’ completamente guarita. Si rechera’ al sanatorio di Persch, vicino a Salisburgo, il 15 di questo mese, mentre io e mia cognata guideremo fino a Gastein. Il suo medico raccomanda una zona d’altitudine ma con uno stile di vita tranquillo. Mia figlia sta cercando di entrare in Baviera vicino a Reichenhall assieme ad un’amica (Margarete Rie). Non ti sorprendera’ che abbiamo scelto di soggiornare in luoghi cosi costosi in questa occasione. Ogni cosa vicino a Vienna e’ anche piu’ costosa, assolutamente proibitiva, i soggiorni estivi sono bloccati, i viaggi all’estero una fatica insopportabile. E non e’ possible rinunciare a bevande fresche mentre fa caldo. Chissa’ chi di noi sopravvivera’ il prossimo inverno, da cui ci si aspetta gia’ il peggio. Inoltre la certezza di sventure materiali a causa dell’attuale situazione non favorisce il risparmio” (Ibidem, p. 624)

Oltre alla serenita’ con cui Freud informa il collega della sua decisione di recarsi nel sanatorio piu’ costoso con Minna invece di andare con sua moglie Martha in quello di Parsch vicino a Salisburgo, apprendiamo altrove che altri tre figli di Freud vennero colpiti dall’influenza Spagnola: Anna, Ernst e Mathilde. Non vi sono praticamente accenni alla loro malattia, in quanto Freud mantiene un atteggiamento riservato  al riguardo quando parla con amici e colleghi. Inoltre, la preoccupazione di Freud per la sorte di suo figlio Martin, ancora prigioniero alla fine della guerra, e’ un’ombra che permane silenziosamente sullo sfondo. Il 2 dicembre 1918 Freud scrive al suo amico Abraham che suo figlio Martin non ha ancora fatto rientro “(…) dalle informazioni ricevute pare che tutto il suo plotone sia stato catturato senza combattere, quindi potrebbe andare peggio, ma non abbiamo notizie su di lui personalmente dal 25 ottobre. Ernst si trova a Monaco, Oli a casa da solo. Le rinunce sono serie, l’insicurezza diffusa, la pratica ovviamente marginale” (Ibidem p. 604). Due settimane dopo Freud non sa ancora dove si trovi suo figlio Martin e “cio’ contribuisce all’umore depresso di questo periodo” (Ibidem, p. 607). Fu solo il 19 gennaio 1919, tre mesi dopo la notizia della sua prigionia, che Freud apprese che Martin era stato arrestato a Genova. In luglio, mentre Martha, Minna e Freud si stavano recando in sanatori diversi, Martin fu rilasciato dalla prigionia e fece ritorno a Vienna.

Al contrario dell’attuale pandemia per il Covid-19, Freud pare aver percepito l’influenza Spagnola come un evento difficile ma in qualche modo piu’ marginale (Nebenschauplatz) relativamente ad altri eventi avversi e perdite che dovette sopportare. Leggendo le sue varie lettere nel periodo in cui aveva anche scritto testi importanti come “Il tabu’ della virginita’” (1918), “Il perturbante” (1919) e “Un bambino viene picchiato” (1919), ci appare un’immagine di Freud come un uomo che dovette affrontare quotidianamente problemi economici che riguardavano anche il costo del cibo e del riscaldamento assieme ad altre rinunce di ogni tipo. “Le rinunce sono grandi, l’incertezza diffusa, la pratica clinica ovviamente ridotta” e “nella stanza il freddo e’ pungente” scrive ad Abraham il 2 dicembre 1918 e, di nuovo, il 9 febbraio 1919 (Ibidem, p. 604, p. 610).

L’influenza Spagnola – cosi chiamata perche’ in Spagna non c’era censura nella stampa e si poteva liberamente riportare la diffuzione mondiale della malattia – i virus cosiddetti “spagnoli” venivano in realta’ dagli USA (Contea di Haskell, Stato del Kansas), portati dai soldati americani giunti in Europa per aiutare gli alleati nella prima guerra mondiale. La Spagnola era dunque strettamente legata alla guerra in Europa, perche’ arrivo’ con i Soldati americani sul suolo francese che diffusero inconsapevolmente questo virus killer ancora piu’ pericoloso della guerra. Una situazione percepita come di supporto e assistenza da parte degli Alleati si rivelo’ in seguito un fattore violento e mortifero.

Ci sono innumerevoli parallelismi tra l’influenza Spagnola e l’odierna pandemia, a partire dai sintomi (tosse, febbre alta, brividi, polmonite) ed il decorso della malattia (se lo stato infiammatorio non migliorava, la morte sopraggiungeva circa dopo nove o dieci giorni, i sopravvissuti lamentavano estrema astenia e conseguente stato depressivo), per proseguire con le prime voci sull’origine del virus – le “fake news” – sul decorso e la diffuzione della malattia (l’influenza aveva origine in Spagna e si era diffusa attraverso il cibo in scatola che era stato avvelenato dai Tedeschi), fino al senso di sopraffazione dovuto all’elevato numero di morti che, nonostante le misure di quarantena prese, passo’ da 2800 nell’agosto del 1919 a 12.000 nel settembre dello stesso anno solo negli Stati Uniti.

Eppure la storica Elizabeth Dietrich-Daum, dell’universita’ di Innsbruck, ci intima di non paragonare le due epidemie. La sua posizione e’ che la guerra mondiale e lo scopo di tale guerra furono sempre in primo piano sulla scena del mondo: “I Soldati venivano coperti e spediti su treni e navi e se uno si ammalava finiva per infettare l’intero esercito. La quarantena e le misure di isolamento prese dai governi europei per contenere la diffusione del Corona virus non erano immaginabili durante la prima guerra mondiale” (Dietrich-Daum, 2020).

Guardare indietro potrebbe aiutarci a formulare una valutazione migliore dell’attuale pandemia da Covid-19 e a (re-)integrarla successivamente all’interno di un sistema simbolico. E’ probabile che dovremo prepararci a diversi stadi della pandemia da Covid-19, cosi come accadde per la Spagnola che duro’ due anni, dal 1918 al 1920, in tre ondate consecutive in tutto il mondo. Possiamo anche imparare molte cose guardando le differenze tra le due pandemie, accadute a cento anni di distanza l’una dall’altra. Contrariamente a quello che accade con il Covid-19, la Spagnola colpiva prevalentemente i giovani (20-40 anni), diffondendosi durante la guerra e terminando per uccidere 50 milioni di persone e contagiandone 500 milioni. Contrariamente a cio’ che succedeva ai tempi dell’influenza polmonare, noi non abbiamo guerre important al di fuori del continente africano. Allo stesso tempo l’Europa non si ritiene in grado di aiutare le poche migliaia di rifugiati che devono restare in Grecia all’interno dei campi profughi per fuggire dalla guerra in Siria. Non dobbiamo combattere una carestia (non ancora) , le nostre possibilita’ di sopravvivenza sono molto piu’ alte che nel 1920 grazie alle misure di sicurezza recentemente stabilite e grazie alle scoperte della medicina e ai vaccini che arriveranno probabilmente l’anno prossimo.

Ciononostante, la questione del perche’ Sigmund Freud menziona a malapena l’influenza Spagnola nei suoi scritti e’ probabilmente dovuta al fatto che era coinvolto quotidianamente dagli eventi bellici della prima guerra mondiale. L’enorme differenza tra il numero di morti causato dalla guerra e quello causato dall’influenza venne rivelato solo successivamente a causa della censura dovuta alla guerra, facendo si che ai tempi di Freud i morti causati dalla pandemia e quelli causati dalla guerra non potessero essere distinti. Inoltre, la morte per mano umana, come nel caso di una guerra che potrebbe essere evitata, richiede un’analisi piu’ approfondita dell’umana passione/riluttanza nell’utilizzo della violenza, al contrario delle conseguenze dovute ad una pandemia invisibile, che ci rende inermi e spaventati di fronte all’ignoto.

Ciononostante, non dovremmo dimenticare le parole di Sigmund Freud, che ci arrivano oggi come un eco del passato:

“Si vis vitam, para mortem – Se vuoi sopportare la vita, impara ad accettare la morte” (Freud, 1915, p. 355).

Come gia’ indicato, Freud non poteva far altro che arrendersi al profondo dolore quando il suo nipotino Heinerle, il figlio minore di Sophie, (il fratellino di Ernst che gli forni’ la chiave della struttura del linguaggio attraverso il gioco del Fort-Da) mori’ il 15 ottobre 1926. Freud scrisse le righe seguenti a Ludwig Binswanger:

“Questo bambino ha sostituito tutti i miei figli e nipoti per me, e da quel momento, dalla morte di Heinerle, non riesco piu’ ad occuparmi degli altri nipoti e ho perso il desiderio di vivere. Questo e’ anche il segreto della mia indifferenza – quello che viene chiamato coraggio- considerata una minaccia alla mia stessa esistenza.”

Nel 1929 rispondeva a Ludwig Binswanger il 12 aprile (che sarebbe stato il trentaseiesimo compleanno di sua figlia Sophie):

“Sebbene tu sappia che dopo tale perdita il profondo stato di dolore si plachera’, sappiamo anche che rimarremo inconsolabili e che non troveremo mai un sostituto. Non importa cio’ che colmera’ il vuoto, anche se qualcosa lo dovesse colmare completamente, restera’ per sempre qualcosa d’altro…Ed effettivamente e’ cosi che deve essere. E’ l’unico modo per rendere perpetuo quell’amore a cui non vogliamo rinunciare (…) (Ernst Freud, 1960, p. 386).

Queste sono le splendide parole di un uomo che sosteneva nei suoi scritti teorici, come in “Lutto e melanconia” (1915-1917), che il lutto e’ un processo limitato che, quando compiuto, permette ad un nuovo amore di legarsi a nuovi oggetti, un uomo che sosteneva che ogni lutto protratto e’ un segno della melanconia che incorpora l’oggetto perduto, il quale si rivolta contro l’Io per schiacciarlo con lamenti e rimpianti che non permetteranno di staccarsi dall’oggetto perduto. “Lo vediamo (il melanconico, JWB) come una parte dell’io si schieri contro l’altra parte, giudicandola severamente e prendendola come proprio oggetto” (Freud, 1915/1917, p. 247).

L’idea che una perdita lasci una ferita sempre aperta che non puo’ essere richiusa da un nuovo oggetto e l’idea che cio’ possa essere la prova di un amore presente e duraturo non si reperira’ nei successive scritti teorici di Freud. Tuttavia, la tardiva realizzazione di un amore inconsolabile e di un processo continuo di lutto potrebbe indicare che una situazione inizialmente “astratta” (Annemarie Pieper) o impossibile, come Lacan descrive il Reale nel Seminario XI, potrebbe venire tradotta in un linguaggio simbolico, affettivo, perche’ anche durante un evento traumatico come la pandemia da Covid-19 “si tratta di un appuntamento a cui siamo sempre chiamati, un appuntamento con un reale che ci sfugge” (Lacan, 1973/1981, p. 53).

Cio’ che inizialmente puo’ essere afferrato attraverso i numeri, le statistiche, i grafici e i “fatti” – dato che i fatti sono devastanti e inimmaginabili – potrebbe fare presa successivamente solo attraverso un linguaggio diverso, che non si limita a registrare, informare, devastare, ma che e’ in grado di offrire uno spazio simbolico in cui le perdite affettive possono recuperare una forma e risuonare.

Scritto da Jeanne Wolff Bernstein, presidente del comitato consultivo della Fondazione Sigmund Freud

Pubblicato sul sito Sigmund Freud Museum

Tradotto dalla lingua inglese da Gloria Barioni

Bibliografia

Dietrich-Daum, Elisabeth (2020), “Not comparable with historical epidemics” disponibile online su: https://www.uibk.ac.at/newsroom/nicht-mit-historischen-seuchen-vergleichbar.html.de

Freud, Sigmund (1915-1917) “Mourning and Melancholia”, SE XIV, 237-260.

Freud, Sigmund (1915), “Thoughts for the Times of War and Death”, SE, Volume XIV, 273-302.

Freud, Ernst, (1960) Letters of Sigmund Freud, selected and edited by Ernst Freud1873-1939, New York, Dover Publications.

Sigmund Freud/Karl Abraham, Briefwechsel 1907-1925, Complete Edition, Edited by Ernst Freud 1873-1939, New York, Dove Publications.

Sigmund Freud/Sandor Ferenczi correspondence, edited by Ernst Falzeder & Eva, 1996, Bohlau, Vienna.

Lacan, Jacques, The four fundamental concepts of psychoanalysis, Seminar XI (1973), translated by Alan Sheridan, W.W. Norton Company, New York, 1981.

Lohl, Jan (2016) “But mourning is a great mystery to psychologists”. Reflections on Freud’s theories of mourning and its social context, lecture, SFU University, October 2016, Vienna.

Pieper, Annemarie (2020), Interview with Annemarie Pieper, Tagblatt, March 25.

Spanish flu on Wikipedia.

Il “Boss” e la psicoanalisi

Bruce Springsteen

Negli Stati Uniti, molti americani della mia generazione e di quelle vicine – che significa molti americani – conoscono l’artista Bruce Springsteen come “Il Boss”. Le canzoni di Springsteen, i suoi testi e i suoi concerti intensi e pieni di energia hanno per decenni attirato fan da tutte le parti del paese, hanno ottenuto consenso dal pubblico e dalla critica, riscuotendo enorme successo. Springsteen è stato sulla vetta dell’industria musicale del pop e del rock.
Recentemente, ha pubblicato un’autobiografia intitolata “Born to run”, come il suo famosissimo album del 1975. Ho appena letto questo libro e sono stato immediatamente colpito dall’alto livello di consapevolezza percepibile nella sua scrittura. A mio avviso, le sue canzoni sono sempre apparse molto dirette con caratteristiche liriche che avrebbero potuto facilmente scadere nel banale e invece – attraverso le sue canzoni e le sue esibizioni – la sensibilità singolare e la perspicacia personale di Springsteen lo elevano ad uno statuto molto speciale nel mondo pop/rock. Questa stessa capacità di esprimere la propria consapevolezza si manifesta anche nel libro, soprattutto nella prima metà che copre il periodo prima del raggiungimento del successo e del riconoscimento mondiale.
Infatti Springsteen dedica molto tempo a descrivere accuratamente le sue origini, la sua infanzia in un quartiere duro ed operaio del New Jersey, con un padre severo e difficile e la sua lotta per cercare di trovare, personalmente e professionalmente, la propria identità (termine che usa spesso). È in questo contesto che nasce la sua passione per la chitarra, per la musica e, in seguito, per cantare e comporre. Ha questa capacità di scrivere con grande sensibilità quello che sente, descrivendo il modo in cui le sue relazioni e il mondo in cui è cresciuto influenzano il suo modo di suonare, il modo di interagire con i vari gruppi e i temi delle sue canzoni e dei suoi album. Qualcosa che enfatizza è il desiderio determinato che sentiva dentro – la sua ambizione, per se stesso e per la sua musica.
Ad un certo punto arriva il successo, raggiunge un enorme riconoscimento e decide di viaggiare attraverso gli Stati Uniti – un viaggio on the road – assieme ad un suo caro amico. Mentre attraversano il Texas in auto, si fermano in una cittadina in festa, con musica e balli e questa scena, racconta, gli provoca un profondo senso di terrore e angoscia – “un’angoscia più profonda di qualunque sensazione mai provata”. Springsteen rimane paralizzato. Racconta che in quel periodo della sua vita si è ritrovato a confrontarsi con qualcosa da cui aveva cercato di difendersi da tutta la vita (“ le difese che mi ero costruito…avevano perso la loro utilità”), qualcosa da cui la sua passione, la sua ambizione ed il suo desiderio lo stavano proteggendo – qualcosa che nel libro cita vagamente come buio, depressione – qualcosa che io interpreto come un pezzo di Reale. Inoltre, in quel punto del suo libro, dopo circa 300 pagine, scrive di essersi confidato con il suo manager, un amico, il quale gli procura un appuntamento con un professionista in California, che, a sua volta, lo indirizzerà verso Wayne Myers, uno psicoanalista di New York. Springsteen scrive di essere stato in terapia con lui per venticinque anni: ”il risultato del mio lavoro con il dottor Myers ed il debito che provo nei suoi confronti sono l’anima di questo libro”.
A questo punto per me, in quanto lettore, questa consapevolezza che percepisco nel libro diventa retroattivamente trasparente – si tratta di un libro scritto dal punto di vista di qualcuno che ha fatto un lungo percorso psicoanalitico e la conoscenza di Springsteen del proprio mondo interiore e del mondo attorno a lui (di cui scrive all’interno di una cornice topologica continua non molto diversa da un nastro di Moebius) dona a Springsteen, come autore che scrive di sé, qualcosa simile a quell’ “ago indicatore in più” che Lacan cita nel Seminario I quando parla degli analizzati che vivono l’esperienza della psicoanalisi e il modo in cui questa incide su di loro – esperienza che non rimuove le emozioni, le opinioni, le fantasticherie, i pregiudizi eccetera, ma permette di acquisire consapevolezza in modo che non vengano agiti. Con l’analisi è possibile utilizzare le proprie emozioni, opinioni, i propri pregiudizi eccetera proprio come un “ago indicatore in più”, per calibrare i propri agiti e il proprio discorso, il proprio modo di stare al mondo. Ebbene, Springsteen riesce a scrivere di sé utilizzando esattamente quell’ago indicatore in più nel quadrante della propria vita.
Tra il Papa ed il Boss, è interessante leggere oggi le testimonianze di leader mondiali, appartenenti ad ambienti sociali molto diversi, che raccontano cosa hanno capito parlando con uno psicoanalista.

Scritto da Thomas Svolos e pubblicato il 27 agosto 2018 sul sito thelacanianreviews.com
Tradotto dall’inglese dalla dott.ssa Gloria Barioni

Lo straniero dentro di noi

Robert Capa, Sicily. July-August 1943. An American medic looking after a German prisoner.

Robert Capa, Sicily. July-August 1943.
An American medic looking after a German prisoner.

Il nemico che vediamo negli altri si incontra originariamente dentro di noi. Arno Gruen, uno degli psicologi sociali più prestigiosi della Germania, esamina la radice della violenza umana.

Klaus Barbie, il carnefice della Gestapo di Lione, che torturò fino alla morte il combattente della Resistenza francese Jean Moulin, disse in una intervista con Neal Ascherson nel 1983: “ Quando interrogai Jean Moulin, ebbi la sensazione che lui fosse me”. Vale a dire, ciò che quell’assassino fece alla sua vittima lo fece, in un certo modo, a se stesso.

Il punto di vista che voglio esporre è il seguente: l’odio verso gli altri ha sempre qualcosa a che vedere con l’odio per se stessi. Se vogliamo comprendere perché le persone torturano e umiliano le altre persone, prima dobbiamo analizzare ciò che detestiamo in noi stessi.
Quindi il nemico che pensiamo di vedere negli altri deve trovarsi originariamente dentro di noi.
Tentiamo di zittire questa parte di noi stessi annichilendo l’altro che ce la ricorda perché assomiglia proprio a noi. Solo in tal modo possiamo mantenere distante ciò che in noi stessi è diventato estraneo. Solo così possiamo vederci come persone degne. Questo processo interiore che cerco di descrivere è onnipresente e riguarda, in un modo o nell’altro, ognuno di noi.
Vorrei illustrarlo ora con un paio di esempi della mia pratica clinica.
Un paziente mi racconta un episodio della sua infanzia. Aveva cinque anni quando suo padre si permise di fare uno scherzo a due amici che erano fratelli. Il padre chiamò ognuno dei due fratelli (vivevano in case diverse) per comunicargli che l’altro fratello era stato coinvolto in un incidente. Evidentemente gli era parso divertente immaginarsi i due fratelli che correvano completamente atterriti verso le rispettive abitazioni per poi scontrarsi l’uno contro l’altro a metà strada. E questo fu esattamente quello che accadde.

Quest’uomo, che era apprezzato da tutti per essere un padre buono e affettuoso, negava le sue motivazioni sadiche. La sua dedizione e cura erano solo una maschera, con la quale occultava quello che in realtà caratterizzava la relazione con suo figlio, ossia, la mancanza di sensibilità ed empatia. Sebbene da bambino il paziente fu esposto ad esperienze dolorose e offensive, come quella precedentemente descritta, da adulto spesso si comportava esattamente come suo padre. Un giorno fu invitato a cena a casa di un uomo disabile. Quest’uomo gli raccontò un aneddoto in cui un tassista lo aveva offeso per la sua disgrazia e gli parlò del sentimento di paura e impotenza che aveva avuto (l’uomo era paraplegico). Durante la seduta di terapia il paziente raccontò, pieno di orgoglio, che aveva dimostrato al suo padrone di casa l’aggressività con la quale si sarebbe imposto lui in quella situazione. Non aveva accesso alla sua propria sensibilità né alla sua paura; al contrario, rifiutava questi sentimenti che, come suo padre, considerava una debolezza (…).

Una studentessa di un corso di psicologia clinica mi domanda durante una lezione: “Come può essere che io stessa, che lavoro con richiedenti asilo, abbia all’improvviso pensieri razzisti? L’altro ieri ho parlato con un gruppo di giovani albanesi. Alcuni hanno detto: “Voglio lavorare come apprendista”. Allora ho avuto la sensazione che fossero degli stranieri arroganti. Adesso, con la sua conferenza, all’improvviso mi è tornato in mente qualcosa di lontano e dimenticato: mi obbligavano sempre a dire vorrei al posto di voglio. Per questo ho odiato quei giovani albanesi, per qualcosa che ho imparato ad odiare in me”.

“Il soldato”, scrive Barbara Ehrenreich in Riti di Sangue (1997), “cerca il nemico e finisce per incontrare persone nelle quali si riconosce senza alcun dubbio”.
Nel suo libro El honor del guerrero (1998), Michael Ignatieff riporta una conversazione che ebbe con un guerrigliero serbo in una casa colonica nella Croazia orientale: “Mi permetto di dirle che non sono in grado di distinguere un serbo da un croato – e gli chiedo: “Perché pensi siate così diversi?” Lui si guarda intorno con sdegno e raccoglie una sigaretta dalla sua giacca militare color cachi: “Lo vedi? Queste sono sigarette serbe. Là fuori (…) fumano sigarette croate”. “Però entrambe sono sigarette, no?”. “Voi stranieri non capite nulla!” Si scrolla le spalle e ricomincia a pulire il suo mitra Zavosto. Ma, a quanto pare, la domanda lo aveva irritato. Trascorsi alcuni minuti, tira l’arma sul letto che sta tra di noi e dice: “Voglio dirti come la vedo. Quelli lì di fronte vogliono essere damerini. Si considerano europei moderni. Ma ti dico una cosa: siamo tutti merda balcanica”.
Ignatieff continua dicendo: insomma, prima mi fa intendere che croati e serbi non abbiano niente in comune. É tutto diverso, perfino le sigarette. Poi un minuto dopo dice che il problema reale dei croati è che si credono “migliori di noi”. Alla fine arriva a questa conclusione: in realtà siamo tutti uguali.
Nel suo saggio del 1918 Il tabù della verginità, Freud scriveva: “Quando ci si somiglia molto, sono proprio le piccole differenze che stanno all’origine dei sentimenti di estraneità ed ostilità tra le persone”. Perché, si domanda Ignatieff, i fratelli si odiano con più violenza degli sconosciuti? Perché gli uomini e le donne evidenziano sempre le loro differenze, nonostante il loro materiale genetico sia identico, tranne che uno o due cromosomi? La necessità di delimitarsi è talmente grande da negare ciò che innegabilmente abbiamo in comune come, ad esempio, l’abilità intellettiva e presentarlo come se si trattasse di una differenza, nonostante sia stato dimostrato da tempo il contrario.

La domanda che sta dietro a tutto questo è la seguente: come mai percepiamo le piccole differenze come se fossero una minaccia? Come si arriva al paradosso di vedere un altro essere come qualcuno di estraneo e straniero quando è uguale a noi? Quanto più vicine sono le relazioni tra gruppi umani, tanto più questi gruppi sono ostili, prevedibilmente, gli uni con gli altri. Sono i punti in comune che fanno sì che le persone lottino tra di loro, non le differenze.
Siano essi genocidi, torture o l’umiliazione quotidiana che subiscono i bambini da parte dei genitori, tutti questi esempi di violenza e odio hanno qualcosa in comune: il sentimento di repulsione per l’altro, l’ “estraneo” o lo “straniero”. Coloro che commettono atti di violenza si considerano “persone”, mentre gli altri non meritano questa qualifica. L’altro è degradato a Unmensch, al livello delle bestie. È come se, attraverso questo processo, uno si purificasse da se stesso. Denigrando e tormentando le altre persone, uno si libera dal dubbio di non essere immacolato. Il fatto di essere puro o di essere macchiato diventa una caratteristica che distingue quelle che sono persone da quelle che non lo sono. In questo modo ci si sposta dalla percezione all’astrazione. L’altro ormai non viene considerato nella sua condizione umana singolare. A questo punto non è altro che un componente di un gruppo. I suoi comportamenti, atteggiamenti e sentimenti concreti spariscono dal campo visivo e, in cambio, la sua personalità si riduce a un solo attributo: l’appartenenza al gruppo. Questa astrazione rende impossibile vedere l’altro con empatia.

Arno Gruen (1923-2015) è stato un eminente psicologo e psicoanalista svizzero-tedesco. Questo testo è parte di “El extraňo que llevamos dentro. El origen del odio y la violencia en las personas y las sociedades” che Arpa pubblica in spagnolo il 19 giugno 2019. Pubblicato su El Pais il 13 giugno 2019.

Traduzione dallo spagnolo della dott.ssa Gloria Barioni.

APsaA si scusa per aver etichettato l’omosessualità come malattia

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Gli psicoanalisti statunitensi si scusano per aver etichettato l’omosessualità come una malattia
L’Associazione Psicoanalitica Americana (APsaA) lo scorso venerdì si è scusata pubblicamente per avere, in precedenza, trattato l’omosessualità come una malattia mentale, dichiarando che gli errori commessi in passato hanno contribuito a discriminazione e trauma per gli individui LGBTQ.

Si tratta della prima organizzazione medica o della salute mentale americana a chiedere pubblicamente scusa. Continua a leggere

Gli analisti nella fiction – Psicoanalisi e cinema

Immagine articolo psicoanalisi e cinema

La psicoanalisi e il cinema hanno una nascita gemellare. Nel 1895 vennero pubblicati a Vienna gli Studi sull’isteria di Breuer e Freud, opera considerata come rappresentare l’atto di nascita della psicoanalisi.

Nello stesso anno, in un café dei Grands Boulevard di Parigi ebbe luogo la prima proiezione cinematografica pubblica dei fratelli Lumière, intitolata L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat (proiezione che provocò il panico tra gli spettatori convinti che stessero per essere schiacciati dal treno).

Dato l’impatto considerevole del cinema e della psicoanalisi sul XX secolo – e lo scandalo che provocarono – la loro nascita simultanea non può essere una mera coincidenza! Ci è voluto molto tempo prima che il cinema venisse riconosciuto come un’arte vera e propria, precisamente la settima. Per quello che riguarda la psicoanalisi, ha ugualmente provocato numerose resistenze e resta tutt’ora oggetto di caricature, soprattutto nelle sue rappresentazioni cinematografiche e, più precisamente, in quelle Hollywoodiane. Continua a leggere

QUANDO DALÍ HA INCONTRATO FREUD

L’icona del Surrealismo incontrò il padre della psicoanalisi il 19 luglio 1938.

dalì

L’icona del Surrealismo incontrò il padre della psicoanalisi il 19 luglio 1938.

Il cranio di Freud è una lumaca! Il suo cervello ha la forma di una spirale – da estrarre con un ago!” – Salvador Dalì

L’unico incontro di Salvador Dalì con Sigmund Freud fu alquanto bizzarro.

I due si incontrarono il 19 luglio 1938 a casa di Freud a Londra, dove era arrivato solo poche settimane prima come rifugiato in fuga da una Vienna occupata dai Nazisti.

Al momento del loro incontro, sia Freud che Dalì godevano di ampia popolarità.

Freud, che all’epoca aveva già 81 anni, era considerato un prestigioso intellettuale. Dalì aveva solo 34 anni ma si era già distinto come figura chiave del movimento surrealista.

Dalì stava cercando di conoscere Freud già da tempo.

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FRANÇOIS ANSERMET: “VERSO LA SINGOLARITÁ RITROVATA”

Ansermet

Il massimo esponente della psichiatria infantile ginevrina, oltre che psicoanalista, si rammarica della tendenza corrente verso una psichiatria standardizzata che rimuove il soggetto. O sul perché bisogna salvare la psicoanalisi.

Le Temps: Cosa ne pensa di questa suddivisione infinita delle diagnosi psichiatriche?

Ansermet: Stiamo assistendo ad una certa medicalizzazione della condizione umana ed il fenomeno va oltre il DSM. Tutti i medici devono confrontarsi con pazienti che trasformano in domanda di medicalizzazione i disagi dell’esistenza. Il British Medical Journal ha individuato i più menzionati: l’età, la noia, l’ignoranza, la bruttezza, l’ angoscia sulle dimensioni del pene.. 

Il suo collega francese Angès Aflalo ha scritto un libro intitolato “L’Assassinat manqué de la psychanalise” (Il tentato assassinio della psicoanalisi NdT). Il DSM ha partecipato all’attentato?

-Sì, nella misura in cui promuove una psichiatria standardizzata che rimuove il soggetto. Quello che colpisce è il declino della clinica, ovvero dell’approccio che considera ogni paziente un soggetto unico e singolare. E che tenta di articolare questa singolarità con il generale. La psicoanalisi è oggi forse l’ultimo baluardo della clinica. In questo senso ritengo che la psicoanalisi possa costituire una prospettiva futura per la medicina.

-I venti tuttavia non sembrano soffiare in questa direzione…

-Io guardo avanti. Vedo le neuroscienze andare incontro alla psicoanalisi sull’idea che ogni essere umano è unico e singolare: hanno perfino scoperto che l’esperienza lascia una traccia nella rete neurale. A partire da questa scoperta il futuro punterà verso la singolarità ritrovata.

-Eppure se ci sono solo esseri unici non è possibile né fare paragoni né fare ricerca. Siamo allora all’interno di quella casualità che viene combattuta dai creatori del DSM.

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