Sono nato persona o sono nato atleta?
Di fronte alla dichiarazione della mia professione mi sono capitate reazioni di paura, magari di essere ipnotizzati seduta stante, oppure di padronanza dell’argomento. Perfino Freud si era accorto che “quando in un salotto si parla di psicologia, ciascuno si ritiene in diritto di dire la sua perchè, in quanto essere umano, dispone di pensiero e ragione“.
E’ opportuno allora fare un po’ di chiarezza intorno a ciò che è psichico in generale e intorno alla psicologia dello sport in particolare.
C’è una componente molto sana nel rivolgersi ad uno specialista (che sia uno psicologo o uno psicoterapeuta) per farsi aiutare ad affrontare un momento difficile, proprio come andare dal dentista quando ci si accorge di avere una carie.
La psicologia dello sport, come branca della psicologia, è atta a formulare basi scientifiche su allenamento, prestazione, competizione. Si applica sia all’atleta evoluto che all’osservatore interessato, passando per le attività scolastiche ed educative. Molti soggetti, infatti, hanno intuito quanto le proprie risorse personali, e quindi anche quelle psicologiche, possano influire in maniera determinante sul raggiungimento di un risultato. Viene quindi sfatata la diceria che campioni si nasce: se è vero che il talento non si inventa è possibile coltivare la capacità di crescere e sviluppare le nostre risorse personali.
Per questo motivo è necessario riconoscere l’importanza di affiancare all’allenamento fisico quello mentale che comporta un lavoro sulle capacità psichiche quali la motivazione, l’attenzione, la concentrazione e l’emotività.
Come fare sport: lo sviluppo del bambino
Ogni giorno un enorme numero di giovani si cimenta in attività sportive, confrontandosi tra loro sia per quel che riguarda le capacità fisiche che mentali. Diventa allora importante accennare a quelle che sono le caratteristiche psicologiche e cognitive di un ragazzino durante la fase di crescita, perché interessano il suo “come” fare sport. Dividere le caratteristiche in tre categorie, bambino, preadolescente e adolescente, aiuterà ad avere un corretto approccio con il giovane atleta.
IL BAMBINO
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reagisce solo a ciò che é reale e presente al momento
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non é capace di pensiero astratto
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non programma a lungo termine (diventa assurdo quindi avviare una specializzazione precoce)
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trova piacere nel gioco, nella verifica delle proprie abilità
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non risponde a senso del dovere e responsabilità
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non possiede motivazioni per interpretare il gioco come lavoro
IL PREADOLESCENTE
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familiarizza con il pensiero astratto
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desidera vedere fin dove può arrivare
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può programmare obiettivi a lungo termine
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si impegna nella cooperazione
L’ADOLESCENTE
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può preparare gli stadi più alti della professionalità e vivere il ruolo dell’adulto
Per quello che riguarda invece le competenze dei genitori, si potrebbero sintetizzare così:
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comprendere cosa vogliono i figli dallo sport ed adeguarsi, cercando di trasmettere loro aspettative realistiche
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trasmettere un’interpretazione positiva delle leggi sportive, sottolineando che vincere o perdere non è sinonimo di successo o fallimento personale
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porre l’accento esclusivamente sulla disciplina e sull’impegno
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non interferire con gli istruttori nel piano tecnico
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conservare l’entusiasmo dei figli a prescindere dal risultato
L’esperienza sportiva può creare nel ragazzo benefici o danni: tutto dipende dalla qualità di questa esperienza, che è in mano a tutti gli adulti coinvolti, siano essi genitori, tecnici, dirigenti o psicologi. Non bisogna dimenticare che lo sport dovrebbe essere esclusivamente un piacevole strumento di crescita.
Il gruppo squadra
Il famoso Menenio Agrippa sosteneva che i componenti di un gruppo devono sentirsi come parti integranti di uno stesso corpo, tutti di pari valore. Sarebbe stato sicuramente un buon leader per la sua squadra!
E’ importante infatti che, all’interno della squadra, l’atleta si integri psicologicamente attraverso la più completa adesione affettiva ed ideologica, condividendo appieno ogni forma e valore. Per l’atleta la squadra deve quindi essere un gruppo di riferimento. Se così non fosse parteciperebbe alla vita del gruppo solo in termini utilitaristici che porterebbero ad effetti negativi quali disfunzionalità, debole coesione ed una difficile conduzione del gruppo.
Essendo la squadra un gruppo ristretto, dispone di una certa energia interna, di cui una frazione può essere liberata, impegnandola per il raggiungimento di due scopi: mantenere gli individui nel gruppo (energia di mantenimento) e raggiungere gli obiettivi prestabiliti (energia di produzione). Un gruppo ben coeso sarà quindi portato a raccogliere più successi, che a loro volta aumenteranno il grado di coesione del gruppo stesso.
La squadra sarà più solida nella misura in cui ci sarà riconoscenza reciproca e comprensione tra i compagni: non è quindi mettendo insieme i migliori elementi in circolazione che si ottengono i successi maggiori; è molto meglio radunare quei soggetti che sanno agire correttamente alle azioni e agli stati d’animo dei compagni.
Per quel che riguarda gli obiettivi, è necessario che un atleta abbia ben chiaro per quale scopo lavora sodo e sacrifica una parte della sua vita. Solo così potrà dare il massimo di sè stesso e continuare ad essere motivato.
Per richiamare quel “tutti di pari valore” che compare nella frase di Menenio Agrippa, è fondamentale che tutti i componenti di una squadra siano posti sul medesimo piano, dal panchinaro a colui che utilizza più minuti sul campo, se non sul piano tecnico, dove le differenze potrebbero essere evidenti, sicuramente sul piano umano.
E’ quindi utile che un giovane atleta prenda “lezioni” da un giocatore più esperto ma è parimenti utile che sia consapevole di essere nella squadra per un determinato motivo, perchè si crede in lui e partecipi, nel suo ruolo, al tentativo di raggiungere quel famoso obiettivo comune, che deve essere comune proprio a tutti (dirigenti, allenatori, atleti) perchè questa comunione di scopi favorirà l’integrazione nel gruppo squadra.
Anche “dare voce al gruppo” è importante per ottenere una buona coesione. Incoraggiare l’autogestione del gruppo e organizzare riunioni in cui si possa parlare proprio di tutto è il modo migliore per amalgamare il gruppo. La messa in discussione delle decisioni dell’allenatore da parte degli atleti, infatti, non fa perdere autorità: potrebbe, al contrario, far emergere nei giocatori un sentimento di responsabilità e di partecipazione e renderli più legati alla maglia che hanno l’onore e l’onere di indossare. E’ altrettanto importante che queste riunioni siano vissute in modo completo, senza limitare gli animi: lasciare spazio a queste eventuali forme di scarico dell’aggressività reciproca e imparare a gestirle impedirà che compaiano la domenica sul campo.
Presenza e ansia
La presenza è la capacità di non mentirci, sentirci cioè per come stiamo fisicamente ed emotivamente, in un determinato momento. Solo così saremo infatti in grado di conoscerci per ciò che siamo e per quelle che sono le nostre reazioni, essere in grado di non spaventarci e prendere le necessarie contromisure a seconda delle nostre personali esigenze. Presenza è quindi anche capacità di fermarsi e non farsi prendere dall’ansia.
Ma cos’è l’ansia? La definizione più semplice la descrive come una paura acquisita che si manifesta con una sensazione cosciente di pericolo imminente, accompagnata da sintomi somatici quali tachicardia, dispnea, sudorazione intensa, nausea, tensione muscolare.
Un certo grado d’ansia è indispensabile per poter svolgere un’attività agonistica in quanto produce modificazioni fisiologiche favorevoli per affrontare la competizione, predisponendo attentivamente ed emotivamente l’atleta alla gara. Ma cosa significa “un certo grado”? Qui diventa importante il conoscersi, il notarsi, il non nascondersi dietro ad una facciata di invulnerabilità emotiva.
Ma perchè lo sport, che dovrebbe essere un divertimento, si rivela invece una fonte d’ansia che fa stare male?
Una gara è ansiogena per definizione, perchè comporta la messa in gioco del soggetto e l’incertezza del risultato, soprattutto nelle discipline individuali dove la responsabilità del successo o del fallimento non è condivisa tra i membri del gruppo. Inoltre, possono suscitare ansia il rapporto con il pubblico e i media e le situazioni frustranti come l’attesa della gara e la consapevolezza della superiorità dell’avversario. Infine, non ci si può dimenticare del fantasma dell’infortunio.
L’infortunio
E’ importante accettare l’infortunio come parte dell’attività sportiva e il periodo devoluto alla riabilitazione non come tempo perso ma come parte di un processo di apprendimento e, magari, anche di crescita.
L’infortunio può essere uno dei più grandi ostacoli al raggiungimento del successo sportivo e, di conseguenza, una delle cose più traumatiche, emotivamente e psicologicamente.
La sfida che comporta va oltre l’aspetto fisico della riabilitazione e la gravità dell’infortunio stesso. La risposta di un atleta ad un infortunio può essere paragonabile ad una reazione di perdita o di lutto. Il soggetto attraverserà quindi le fasi di ansia e negazione, rabbia, depressione, accettazione e speranza che caratterizzano il lavoro del lutto.
Il fissarsi o il non comparire di una di queste fasi può indicare qualche problema che influenzerà il processo riabilitativo. E’ utile quindi vedere l’infortunio non come un episodio ma come un processo e fare attenzione anche agli equlibri psicologici oltre agli aspetti biomeccanici.
La riabilitazione
Nella relazione che l’atleta andrà a costruire con il riabilitatore due sono i punti chiave: comunicazione e attività. La comunicazione comprende, da parte dell’atleta, la consapevolezza di ciò che gli è successo, ciò che comporterà, cosa dovrà fare per uscirne. Solo così potrà impegnarsi con fiducia e minore ansia. D’altra parte è importante che l’atleta abbia un ruolo attivo e si senta parte integrante del programma.
Dal punto di vista psicologico, gli elementi chiave per una riabilitazione efficace sono:
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educazione
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definizione degli obiettivi
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supporto sociale
L’educazione consiste in una spiegazione di ciò che ha causato l’infortunio e di quello che sarà il suo adeguato trattamento riabilitativo assieme ad una definizione delle aspettative personali dell’atleta e del riabilitatore.
La definizione degli obiettivi lega la motivazione all’azione. Gli obiettivi sono qualcosa di concreto da raggiungere e per cui vale la pena impegnarsi attivamente.
Il supporto sociale è necessario in quanto la relazione con il riabilitatore non può bastare, anche se è auspicabile che sia basata su quel cameratismo già vissuto con i propri compagni di squadra o di allenamento. Famiglia, amici, allenatori, compagni, dovrebbero essere coinvolti nel processo riabilitativo per fornire un supporto sociale completo. Infine, è consigliabile che l’atleta continui a frequentare, ove possibile, i campi di allenamento e di gara che lo vedevano ( e lo rivedranno) protagonista.
Ubaldo Pedretti
Psicoterapeuta – Psicologo dello Sport